Draghi sbaglia: Francia e Germania faranno a meno della Ue (MilanoFinanza)

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Draghi sbaglia: Francia e Germania faranno a meno della Ue (MilanoFinanza)

Guido Salerno Aletta

Riportiamo un interessante articolo a firma dell’ autorevole editorialista di MilanoFinanza Guido Salerno Auletta sulla situazione attuale e sulle prospettive dei principali paesi europei (Francia e Germania in primis).

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Forse che sì, forse che no. Nel suo recente intervento pubblicato sull’Economist online, Mario Draghi ha constatato che le nuove sfide che l’Europa si trova ad affrontare, per via degli ingenti investimenti che sono necessari in tempi brevi nei settori della difesa, della transizione energetica e della digitalizzazione, trovano un duplice limite.

Per un verso, l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli; per l’altro, le politiche nazionali non possono essere attivate in quanto le norme europee in materia di bilancio e di aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente.

Ma, invece di concludere che è finalmente arrivato il momento di rimuovere questi vincoli, dimostratisi non solo assolutamente inutili ma soprattutto distorsivi e patogeni in quanto hanno colpevolizzato gli Stati focalizzando l’attenzione sui loro bilanci mentre hanno lasciato sbracare i conti internazionali, commerciali e finanziari, Draghi si è lasciato andare alla consueta narrazione: servono nuove regole e più sovranità condivisa.

Potenziare l’Ue

L’Unione europea deve avere maggiori poteri: il richiamo alla recente legislazione federale statunitense, al Chips Act e all’Inflation Reduction Act, sarebbe la prova provata della necessità di procedere a interventi massicci, di respiro continentale: i singoli Stati americani, così come quelli europei, non hanno né le dimensioni, né le capacità di affrontare queste sfide.

Invertendo il rapporto tra strumenti e fini, si ripropone il paradigma secondo cui in Europa le crisi sarebbero benefiche in quanto possono essere superate solo attraverso un ampliamento dei poteri della Unione europea: ex malo bonum.

Gli esempi non mancherebbero: nello scorso decennio, la crisi finanziaria che a partire dal 2010 ne ha colpito i Paesi periferici, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, avrebbe avuto come positive conseguenze il pieno controllo sui bilanci pubblici da parte di Bruxelles attraverso il Fiscal Compact che imponeva il pareggio strutturale e la riduzione al ritmo di 1/20 l’anno del debito eccedente il rapporto del 60% tra debito e pil; l’accentramento presso la Bce dei poteri di vigilanza precauzionale sulle banche di rilevanza sistemica; il rafforzamento dei poteri di coordinamento dell’Eba in materie che venivano prima concordate a livello internazionale direttamente tra le Banche centrali nazionali, a Basilea, presso la Bri.

Peccato che una così dura politica fiscale e bancaria, adottata senza distinzioni di sorta in tutto il Continente, abbia avuto conseguenze catastrofiche: non solo l’abbattimento della crescita, ma la tendenza alla deflazione dei prezzi, un pericolo tremendo per le imprese e i debitori, contro cui dalla presidenza del Board della Bce lo stesso Draghi ha dovuto lottare strenuamente e senza molto successo, pur portando i tassi dei rifinanziamenti bancari a zero e addirittura fissandoli a un livello negativo per le detenzioni eccedenti la riserva obbligatoria, erogando prestiti a lungo termine senza limiti predeterminati al sistema bancario (Ltro) e attivando per la prima volta un Qe in euro senza concedersi soste.

Ma, pur avendo fatto dell’Europa la terra promessa del sottoproletariato globale, con salari sempre più miseri e le imprese che non hanno alcun motivo per investire, si scopre che neppure gli Stati possono sostenere questo processo: arriverà dunque, salvifica, l’Europa.L’asse Francia-GermaniaMa un sistema di spese derivate non è attuabile quando la leva della finanza si è azzerata, vanificando gli strumenti di compensazione dei vantaggi tra centro e periferia che erano stati elaborati in passato, come i sinking fund: il debito statunitense ha tassi di interesse pressoché appaiati a quelli italiani, mentre i titoli emessi dalla Unione europea servono solo a tenere in piedi l’Esm.Assai più banalmente, si dovrebbe riconoscere che l’impianto europeo è nato ed è cresciuto finora solo per il convergente interesse di Francia e Germania a determinare un assetto di potere a loro più conveniente: da Maastricht all’espansione a nord-est per incorporare i Paesi ex-comunisti fino alle solitarie passeggiate di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel che a Deauville disegnavano i destini del Continente per cercare di riparare i pasticci dell’euro.Sono appaiate, ancora una volta, Germania e Francia. Se la guerra in Ucraina ha abbattuto il potenziale strategico della prima, i colpi di Stato nelle ex-colonie francesi stanno demolendo quello della seconda: il gas russo a basso costo ha mandato avanti l’economia tedesca come l’uranio nigerino ha trainato quella francese.Ma è assai improbabile che, in queste condizioni di comune difficoltà, Berlino e Parigi deleghino a Bruxelles anche un briciolo di potere in più: in un’epoca in cui la guerra si è riaffacciata violenta sul suolo europeo, l’idea kantiana della pace universale raggiungibile mediante sempre più strette reti di accordi tra Stati torna utopica.

L’Unione serve loro come sede di negoziazione, per combinare i rispettivi obiettivi: ora, per ottenere quante più deroghe possibili per gli aiuti alle imprese da una parte, in cambio di concessioni sempre più generose e a lungo termine a favore dell’energia nucleare dall’altra.Un’intesa la troveranno anche stavolta, Francia e Germania: hanno entrambe bisogno di autonomia, di nuove strategie, di spazio. Non hanno alcun interesse a portarsi dietro il baraccone burocratico di Bruxelles, né le sue millanta defatiganti trattative: ognun per sé.

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