“Pensate anche ad una vita senza lavoro, carriera, pensione”, dice Daniel Susskind. Con l’IA è davvero la fine del lavoro?

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“Pensate anche ad una vita senza lavoro, carriera, pensione”, dice Daniel Susskind. Con l’IA è davvero la fine del lavoro?

ma.bu.

Il giovane economista britannico Daniel Susskind nel suo recente libro “Un mondo senza lavoro”, edito da Bompiani, analizza un mondo in cui la tecnologia sostituirà molte figure professionali e il lavoro scomparirà. Ecco perché, dice “dobbiamo concentrarci sul tempo libero”. L’argomento era già stato trattato con efficacia da Jeremy Rifkin in “La fine del lavoro” (1995), ove il sociologo americano analizza le dinamiche moderne del lavoro e dell’influenza sullo stesso delle nuove tecnologie, tanto da azzardare, ma neanche tanto, un titolo, “La fine del lavoro”, fortemente esplicativo.

«Nei prossimi cento anni il progresso tecnologico potrebbe portare a un benessere e a una prosperità senza precedenti, ma il lavoro diventerà scarso, spiega Susskind – Qualsiasi professione, che si tratti di diagnosticare una malattia, redigere un contratto, scrivere notizie, comporre musica o costruire una casa, sarà sempre più alla portata dei computer, grazie ai progressi inarrestabili della tecnologia. Quindi la minaccia di un mondo senza lavoro per tutti è una delle sfide più grandi del nostro tempo».

Per Susskind le questioni da affrontare nei prossimi decenni sono tre: distribuire la prosperità in modo equo, limitare il crescente potere delle Big Tech che sono responsabili dello sviluppo delle tecnologie e riscoprire il senso di un mondo in cui il lavoro non sarà più il centro delle nostre vite. Tracciando la storia dei principali cambiamenti del nostro tempo, l’autore invita pragmaticamente a esplorare strade diverse da quelle di un’economia basata sulle professioni. Rifkin in verità, profetizzando grandi masse di disoccupati a causa delle tecnologie, consigliava quale alternativa la riduzione dell’orario di lavoro, al fine di consentire l’impiego anche di persone rimaste senza lavoro, ed il ricorso al Terzo Settore quale vettore di nuovo lavoro e di benessere.

Intervistato da Repubblica, Susskind ammette che «da quando è iniziata la crescita economica moderna, 300 anni fa, siamo in ansia perché la tecnologia possa rubarci il lavoro, ma ce n’è sempre stato abbastanza per tutti. Questa volta invece sarà diverso, perché la tecnologia sta diventando, gradualmente ma inesorabilmente, sempre più capace e potente».  

Come dovremmo reagire, quindi, a questo scenario? «Ripensando l’istruzione, nonostante i suoi limiti. Bisogna insegnare le competenze che renderanno le persone migliori in quegli ambiti in cui le macchine sono carenti. Scegliere lavori come l’infermiere o il caregiver, che richiedono abilità per ora al di fuori della portata dei robot. Abbiamo bisogno poi di uno Stato che assuma un ruolo più ampio nella ripartizione del reddito nella società, se non possiamo affidarci al mercato del lavoro. La soluzione? Un reddito di base universale “condizionato”, per mantenere il senso di solidarietà sociale. Le persone potrebbero contribuire al bene collettivo attraverso altre attività, come per esempio il volontariato».

Il lavoro non è solo una fonte di reddito, per molti è anche il senso della vita.

«Grandi nomi del pensiero occidentale hanno analizzato il rapporto tra lavoro e senso della vita. Per Freud il lavoro era una garanzia di ordine sociale. Per Max Weber una forma di devozione religiosa. Per Alfred Marshall il modo di accedere alla pienezza della vita. Di conseguenza non lavorare è un demerito, una vergogna. Eppure in altre società di diverse epoche storiche, il lavoro era considerato degradante. Nella città ideale teorizzata da Platone i lavoratori erano confinati alla classe di artigiani e non avevano la possibilità di occuparsi degli affari di Stato. Nelle antiche mitologie e scritture sacre il lavoro era considerato una punizione. Oggi, invece, siamo talmente dipendenti dal lavoro che non riusciamo a immaginarci senza. Invito quindi a riconsiderare il rapporto tra lavoro e senso della vita, perché non è così forte come molti pensano.L’altra questione che si pone è come le persone trascorreranno il tempo libero se non lavoreranno. Il lockdown imposto dalla pandemia è stata una prova».

Smart working, settimane corte e grandi dimissioni vanno già verso un nuovo rapporto tra lavoro e senso della vita?

«Sì, l’idea di intraprendere una carriera, trascorrere diversi decenni a progredire e poi andare in pensione, è piuttosto superata. Se siamo liberi di vivere la nostra vita in modo diverso, troveremo un significato altrove».

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