Nagorno-Karabakh: “agnello sacrificale” sull’altare degli equilibri tra Russia, Stati Uniti e Turchia (da Analisidifesa.it)

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Nagorno-Karabakh: “agnello sacrificale” sull’altare degli equilibri tra Russia, Stati Uniti e Turchia (da Analisidifesa.it)

Ecco un interessante articolo a firma Mirko Molteni, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, pubblicato qualche giorno addietro sulla rivista online “Analisi Difesa”. L’ articolo approfondisce la storia e le ragioni del conflitto in Nagorno-Karabakh e delle ragioni di un mancato intervento Nato (o russo) a tutela della martoriata popolazione armena, diversamente da quanto accaduto per esempio per il Kosovo ed oggi per l’ Ucraina. Va detto che il “mondo libero” ha un approccio generalmente favorevole verso Baku, non certo una democrazia, che tra l’altro rifornisce di gas in grande quantità (vedi anche Tap), e che dunque ha un ruolo importante nella sostituzione della Russia come “fornitore ufficiale” di quest’ importante materia prima.

L’articolo, che qui riportiamo in versione integrale, è disponibile all’ indirizzo https://www.analisidifesa.it/2023/10/nagorno-karabakh-agnello-sacrificale-sullaltare-degli-equilibri-tra-russia-stati-uniti-e-turchia/

Dopo più di trent’anni sembra ormai essersi conclusa la vicenda dell’enclave armena del Nagorno Karabakh, frequente casus belli tra l’Armenia e l’Azerbaijan e tra i principali detonatori della regione caucasica e sub-caucasica. Il piccolo staterello etnico dell’Artsakh, una fra le tante eredità dello sfascio dell’Unione Sovietica nel 1991, è stato sacrificato sull’altare degli equilibri delle potenze vicine, specie Russia e Turchia. Ma la sua annessione da parte del governo di Baku non basterà a placarne gli appetiti, già rivolti a cercare un collegamento territoriale con l’exclave azera del Nakhicevan.

Nei giorni scorsi, poche ore di guerra fra l’Azerbaijan e lo staterello armeno dell’Artsakh, coincidente con l’enclave del Nagorno Karabakh, sembrano ormai aver sancito la vittoria definitiva di Baku, che ha sfruttato la priorità assegnata dalla Russia ai buoni rapporti con la Turchia, maggior alleato degli azeri, per imporre un fatto compiuto che spingesse Mosca a consigliare la resa alle milizie armene.

I russi sembrano, almeno per il momento, aver abdicato alla loro storica funzione di protettori dell’Armenia, a sua volta sostenitrice dei fratelli in Artsakh, anzitutto per non indispettire Ankara, la cui amicizia è oggi più che mai preziosa nel pieno della guerra in Ucraina. Ma la stessa Armenia ha lanciato segnali preoccupanti per il Cremlino, avvicinandosi negli ultimi tempi agli Stati Uniti e facendo temere un’infiltrazione militare e di intelligence di Washington a Sud del Caucaso, in un’area nevralgica idealmente posta a guardia del “ventre molle” della Russia e anche del vicino Iran. La mancata protezione russa all’Armenia potrebbe quindi essere stata una calcolata misura per minare l’attuale governo armeno. In tutto ciò, a farne le spese come “agnello sacrificale” è stata la comunità armena del Nagorno Karabakh. Quasi un monito anche nei confronti di Erevan, dovesse essere tentata di avvicinarsi ancor di più all’Occidente.

Tensione infinita

Una grossa esplosione ha squassato il 26 settembre 2023 l’area di Stepanakert, la “capitale” dello staterello non riconosciu okto internazionalmente dell’Artsakh, costituito dagli armeni locali nell’enclave del Nagorno Karabakh e ora, a quanto pare, ormai condannato al riassorbimento da parte dell’Azerbaijan dopo una rapida e improvvisa offensiva militare.

E’ andato distrutto un grosso serbatoio di carburante e ci sono stati 68 morti e ben 300 feriti. A quanto si è appreso, l’esplosione è avvenuta mentre centinaia di civili stavano facendo la fila per approvvigionarsi di benzina per le loro automobili, in modo da poter evacuare in Armenia. Non si è ancora in grado di dire se si tratti di un tragico incidente o di un attentato, ma la tensione che permane nell’area potrebbe accreditare perfino la seconda ipotesi.  E’ questo solo uno degli ultimi di una serie incalzante di eventi che ha in sostanza sbloccato una situazione di stallo che durava da 30 anni.

Fra il 19 e il 20 settembre 2023 le forze armate azere hanno attaccato pesantemente il Nagorno Karabakh, le cui milizie si sono arrese nell’arco di 24 ore su consiglio dei circa 2.000 soldati russi presenti in loco in funzione di forze di interposizione.

Peacekeepers che pure hanno sofferto alcune perdite per errori di identificazione da parte azera. Il tutto mentre l’Armenia, a differenza di precedenti occasioni di conflitto, se ne è tenuta fuori, lasciando sole le milizie locali di fronte a un esercito avversario troppo superiore, in uomini e mezzi, specialmente grazie a forniture militari da Turchia e Israele.

All’indomani della resa è poi iniziato un esodo di massa degli armeni del Karabakh verso la madrepatria. I primi arrivi, ancora “poche decine di donne, vecchi e bambini” sono stati segnalati il 24 settembre al centro di accoglienza armeno di Kornidzor. Il 26 settembre, fra profughi arrivati e ancora in marcia, risultavano più di 13.000. E già il 27 settembre se ne stimavano 42.000, ossia un quarto circa dei 120.000 abitanti dell’enclave, in fuga con autobus e automobili stracarichi di masserizie.

Al 28 settembre si è poi aggiornata la cifra dei fuoriusciti a ben 65.000 e poi 100mila a fine settembre. La paura della pulizia etnica, in altre parole massacri, a seguito di un odio reciproco stratificato da secoli, è stata già anticipata da una vera e propria carestia provocata nei mesi precedenti dal blocco azero del corridoio terrestre da cui passavano nell’enclave cibo e carburante, innescando un rapido spopolamento. E al momento attuale, tale paura fa intravedere la sparizione dell’enclave armena, sebbene ci siano stati ancora segnali di rotture del cessate il fuoco.Il verdetto del campo di battaglia sembra però definitivo. Provate dall’improvvisa sconfitta, sono le stesse autorità dell’Artsakh a preparare il terreno allo smantellamento dello staterello durato 30 anni. Il 28 settembre il presidente locale Samvel Shakhramanián, ha decretato “lo scioglimento entro il 1° gennaio 2024 di tutte le istituzioni pubbliche e le organizzazioni ad esse subordinate della Repubblica dell’Artsakh, la quale cessa di esistere”.Il decreto è automaticamente entrato in vigore e spiega che, quando saranno note le condizioni per il ritorno degli abitanti nel dell’enclave ormai conquistata dall’Azerbaijan, i profughi armeni potranno “prendere individualmente la decisione di rimanere o tornare nel Nagorno-Karabakh”.

Da Erevan, il premier armeno Nikol Pashinyan ha rilasciato all’agenzia Interfax parole altrettanto meste, aggravate nel suo caso dal fatto di non aver preso misure pratiche a difesa dell’indipendenza dell’Artsakh: “L’analisi della situazione mostra che nei prossimi giorni non ci sarà più alcun armeno nel Nagorno-Karabakh. Questo è un atto di pulizia etnica”.

Pensare che dell’aver sacrificato l’indipendenza de facto dell’Artsakh possa essere valsa la pena per raggiungere una pace duratura nell’area, si potrebbe dimostrare ingannevole. Infatti la rapida vittoria, con la sicurezza dell’essere spalleggiato dal “fratello maggiore” turco, potrebbe, in prospettiva, incoraggiare il governo di Baku a perseguire, nei prossimi anni, quando le condizioni lo permetteranno, un’integrità territoriale totale avanzando fino a tagliare quella propaggine d’Armenia che si spinge a Sudest toccando la frontiera con l’Iran, ovvero la regione del Syunik.E in tal modo ricongiungersi con l’exclave azera del Nakhicevan, a ridosso della Turchia. Così si avvererebbe il sogno del “Grande Azerbaijan”. Un anticipo di tale evoluzione lo si è intravisto con le pregresse richieste azere del cosiddetto “corridoio di Zangezur”, che dovrebbe passare, “senza posti di blocco”, come chiede Baku, attraverso il territorio meridionale dell’Armenia.

Gas e confiniInoltre, il 25 settembre scorso il presidente azero Ilham Aliyev, fresco di trionfo nella sua “guerra di un giorno”, s’è incontrato col presidente turco Recep Tayyp Erdogan proprio nel Nakhicevan, a Sederek, per inaugurare un nuovo gasdotto collegato alla rete turca dal nodo di Igdir.

La tubazione, lunga 97 chilometri e della capacità di 730 milioni di metri cubi l’anno, ma definita “raddoppiabile in futuro”, è teoricamente destinata a rifornire di gas dalla Turchia l’enclave azera, altrimenti isolata dal lato armeno. Ma apparendo già adesso molto sovradimensionata rispetto alle necessità della popolazione della regione, circa 450.000 persone, e in più prevedendosi un grosso ampliamento di portata, è possibile che si pensi già in futuro a collegarla alla rete azera offrendo, in senso di flusso opposto, una tratta aggiuntiva a quelle che portano il gas di Baku in Turchia e poi in Europa.Ecco perché, durante la cerimonia, Erdogan ha dichiarato: “Il gasdotto Igdir-Nakhicevan rafforzerà ulteriormente la nostra cooperazione nel settore energetico con l’Azerbaijan e contribuirà anche alle forniture di gas all’Europa”. Il leader turco ha proseguito: “Il Nakhicevan rappresenta un grande potenziale per lo sviluppo di rotte per l’energia e i trasporti, per la logistica fra Est e Ovest. Oggi abbiamo firmato accordi per la costruzione della ferrovia Kars-Nakhicevan, sviluppo della rete elettrica e costruzione di abitazioni nella regione”.

Dal canto suo, Aliyev ha in quell’occasione posto il cappello politico sulla fulminea operazione in Nagorno Karabakh: “Il processo di reintegrazione degli armeni del Karabakh nella società dell’Azerbaijan andrà avanti con successo. Abbiamo già inviato i primi aiuti umanitari nella zona, a dimostrazione che consideriamo gli abitanti cittadini azeri senza riguardo per la loro origine etnica”.

Salvo dimenticare che per mesi, a partire dal dicembre 2022, proprio l’Azerbaijan ha affamato gli abitanti del Nagorno Karabakh bloccando il corridoio di Lachin, attraverso il quale passava la maggior parte dei rifornimenti via terra. E’ ancora presto per valutare se la presenza armena nell’enclave sia compromessa per sempre, ma colpisce complice l’immobilismo di Erevan, sia cambiato lo scenario armeno-azero in poco tempo.

Speranze deluseA fondamento dell’inedito quadro traspaiono due distinte accuse di “tradimento” di impegni precedentemente assunti. Anzitutto sono i residenti armeni del Nagorno Karabakh ad accusare il governo di Erevan di averli abbandonati a sé stessi, rinnegando trent’anni di solidarietà etnica che affondava le radici nella comune memoria delle repressioni subite dai turchi e in genere musulmani, ai tempi dell’Impero Ottomano e soprattutto in occasione del genocidio del 1915.

E’ la paura atavica del ripetersi di una “pulizia etnica” ai danni di uno dei popoli cristiani più antichi, circondato da turcomanni musulmani che non li vedono di buon occhio. Ma è anche la stessa opinione pubblica dello stato armeno a essere in gran parte delusa dall’atteggiamento rinunciatario del governo del primo ministro Nikol Pashinyan, che avrebbe lasciato al loro destino “i fratelli dell’Artsakh”. Il premier lo sa bene e dopo le ampie proteste popolari contro di lui, che hanno animato il centro di Erevan, ha affermato che ci sarebbero stato anche “appelli a un colpo di stato”.

E non è la prima volta che lo denuncia. Non solo. E’ anche la Russia accusata di aver abbandonato la sua storica missione di protettrice dell’Armenia, tradendo le speranze riposte nell’appartenenza alla CSTO, Collective Security Treaty Organization, l’organizzazione di sicurezza collettiva che lega Mosca a vari paesi ex-sovietici.

Gli episodi di guerra a intermittenza fra azeri e armeni, coinvolgenti l’Armenia propriamente detta e il territorio conteso del Nagorno Karabakh, alias Karabakh Superiore, non si contano a partire dal 1988, quando, anche prima dello sfascio dell’Unione Sovietica, iniziarono scontri etnici fra armeni e azeri per questa piccola enclave, compresa entro i confini dell’allora Repubblica Sovietica dell’Azerbaijan, ma popolata al 95% da armeni.

Correva il lontano 1921 quando Stalin, allora commissario per le nazionalità, assegnò questo territorio all’Azerbaijan, commettendo uno dei tanti arbitri di epoca sovietica destinati a trasformarsi in bombe a orologeria. Dopo l’indipendenza dell’Armenia, nel 1991, il Nagorno Karanakh fece altrettanto nel 1992 e sostenne, con l’aiuto di Erevan, una prima guerra contro il governo di Baku, durata fino al 1994 e costata ben 30.000 morti.

Per circa tre decenni lo stato dell’Artsakh è in qualche modo sopravvissuto, attraverso successive schermaglie. Fra le ultime si ricorda quella dell’autunno 2020 che vide le truppe azere riuscire a conquistare circa un terzo dell’enclave. Stavolta il governo del presidente azero Ilham Alyiev ha avuto partita vinta approfittando di una serie di circostanze incidentali. Come il fatto che a Mosca non hanno gradito un avvicinamento fra l’Armenia e gli Stati Uniti. Si tratta di una delle tante conseguenze, alcune delle quali, probabilmente, ancora da focalizzare, che la guerra russo-ucraina sta avendo a livello planetario.Il crescente impegno del Cremlino nel conflitto contro Kiev, nonché il fatto che il presidente russo Vladimir Putin, per ovviare alle sanzioni occidentali, abbia accresciuto i suoi rapporti con Erdogan, hanno sempre più convinto Erevan che la Russia stesse tendendo a moderare il suo ruolo nella regione armena per non crearsi problemi con la Turchia che del resto mantiene presso i russi il notevole credito diplomatico di proporsi come uno dei mediatori più affidabili della guerra in Ucraina. Come insegna i successo dell’accordo di Istanbul sull’export di grano che ha tenuto per circa un anno, da luglio 2022 a luglio 2023.

Lo zampino americanoUn primo segnale sconfortante verso l’Armenia si era avuto con la mediazione russa che nell’autunno 2020 aveva sancito la conquista di un buon terzo del territorio del Nagorno Karabakh da parte degli azeri e nemmeno in occasione di successive scaramucce di confine. Lo ha ben espresso alla CNN il docente di politica internazionale armeno Vahram Ter-Matevosyan, della American University of Armenia di Erevan:“L’Armenia ha investito 30 anni della sua indipendenza, e io aggiungerei 200 anni di storia recente, credendo che la Russia, al momento opportuno, avrebbe adempiuto ai suoi obblighi strategici difendendoci da aggressioni straniere. Ma non è accaduto nel 2020 e nemmeno nel 2021 e 2022”.

Mosca non ha mai avuto simpatia per il governo dell’attuale primo ministro armeno Nikol Pashinyan, salito al potere nel 2018 dopo una “rivoluzione di velluto” che aveva il sapore di un’intrusione occidentale paragonabile, quasi, all’influenza americana esercitata in passato sulla Georgia.Del resto, Pashinyan stesso ha firmato il 10 novembre 2020 insieme al presidente azero Aliyev e a quello russo Vladimir Putin gli accordi di cessate il fuoco che segnarono la fine del conflitto iniziato 44 giorni prima, il 27 settembre 2020.

In quell’occasione gli azeri avevano potuto conquistare due terzi del Nagorno Karabakh contando anche sul fatto che Pashinyan si era rifiutato di mobilitare totalmente l’esercito armeno per impegnare gli azeri lungo il confine. Accuse di “tradimento” verso il premier avevano portato nel febbraio 2021 a tensioni fra il governo e l’esercito sfociate nella destituzione il 10 marzo 2021 del capo di Stato Maggiore armeno, generale Onik Gasparyan, e di decine di altri ufficiali.Si sono creati così negli ultimi anni sospetti reciproci che hanno via via deteriorato i rapporti fra Russia e Armenia. Specie quando, fra 2022 e 2023, l’Armenia si è spesso rivolta anche agli Stati Uniti per una mediazione con l’eterno nemico Azerbaijan a causa delle continue scaramucce di frontiera e del blocco del corridoio di Lachin.

Il picco lo si è raggiunto proprio pochi giorni prima dell’ultimo brevissimo conflitto. L’11 settembre 2023 sono infatti arrivati in Armenia militari americani per un’esercitazione congiunta con l’esercito di Erevan, durata fino al giorno 20. E’ stata una presenza ancora simbolica, ma sufficiente a far intravedere al presidente russo Vladimir Putin lo spettro di un’altra Georgia.

Si trattava di soli 85 uomini appartenenti alla Guardia Nazionale del Kansas e alla 101° Divisione Airborne, che hanno operato nella base addestrativa Zar della 12a Brigata armena.

Gli armeni hanno contribuito con 175 uomini e le manovre, denominate “Eagle Partner”, avevano per scopo dichiarato, come da dispaccio del Ministero della Difesa di Erevan, di: “Aumentare il livello di interoperabilità delle unità partecipanti alle missioni internazionali di mantenimento della pace, scambiare le migliori pratiche nel controllo e nella comunicazione tattica, nonché aumentare la preparazione dell’unità armena per le previste operazioni di valutazione del concetto di capacità operative della NATO”.

Ecco quindi spuntare l’Alleanza Atlantica, pronta a riempire eventuali vuoti strategici lasciati dalla Russia. E del resto, alcuni giorni prima delle manovre, il 3 settembre, il presidente del Comitato Europeo per lo sviluppo della NATO, l’austriaco Gunther Fehlinger, ha invitato apertamente l’Armenia ad abbandonare la CSTO per passare armi e bagagli nella NATO.

Una tentazione molto forte che lo stesso premier Pashinyan ha così espresso in un’intervista concessa a Luca Steinmann per “Repubblica”: “E’ stato un errore strategico affidarci alla Russia per la difesa del paese. L’architettura di sicurezza dell’Armenia è stata legata alla Russia per il 99,999 %. Ma oggi vediamo che la Russia stessa ha bisogno di armi. Perfino se desidera farlo, la Russia non può venire incontro ai bisogni dell’Armenia”.

L’avvicinamento all’Occidente del governo Pashinyan, peraltro, è stato caratterizzato anche da aiuti umanitari all’Ucraina e perfino dal processo di ratifica avviato dal parlamento di Erevan per lo statuto di Roma della Corte internazionale ICC, la stessa che ha comminato un mandato d’arresto per Putin, e la cui osservanza obbligherebbe anche gli armeni, teoricamente, a imprigionare il leader di Mosca qualora visitasse il loro paese.Ecco perché il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov, ha ammonito: “Stiamo monitorando la situazione, ma le esercitazioni congiunte fra Armenia e Stati Uniti sono preoccupanti e non aiutano a rafforzare un’atmosfera di fiducia reciproca nella regione”.Pochi giorni dopo l’Azerbaijan attaccava il Nagorno Karabakh col tipico pretesto, ormai da oltre vent’anni buono per tutte le stagioni, della “operazione antiterrorismo” (…)

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