Ex Ilva di Taranto. Anche l’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia europea si pronuncia in difesa del popolo inquinato.

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Ex Ilva di Taranto. Anche l’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia europea si pronuncia in difesa del popolo inquinato.

L’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia europea Juliane Kokott, nel corso della causa C-626/22, ha argomentato una decisa posizione per la limitazione degli effetti inquinanti delle emissioni industriali, nel caso specifico del complesso ILVA di Taranto in amministrazione straordinaria: “nell’autorizzare un impianto e nel riesaminare un’autorizzazione devono essere considerate tutte le sostanze inquinanti emesse in quantità significativa che possono essere previste e il loro impatto sulla salute umana. Qualora i fenomeni di inquinamento ambientale derivanti dall’impianto o prevedibili, nonostante l’uso delle migliori tecniche disponibili, causino danni eccessivi alla salute umana devono essere adottate misure protettive ulteriori. Se misure in tal senso non risultino attuabili, l’impianto non può essere autorizzato. La tutela della salute umana può in tal caso giustificare anche rilevanti pregiudizi economici. In particolare, non possono essere tollerati fenomeni di inquinamento ambientale che, danneggiando la salute umana, violano i diritti fondamentali degli interessati, come accertato dalla CEDU con riferimento all’acciaieria Ilva.

Le condizioni di autorizzazione necessarie per garantire il rispetto di direttive anteriori a decorrere dal 30 ottobre 2007 e il rispetto della direttiva relativa alle emissioni industriali a decorrere dal 7 gennaio 2014 dovevano e devono continuare ad essere applicate, senza ulteriori differimenti, dall’entrata in vigore dell’autorizzazione”.

La causa in corso è relativa al pronunciamento pregiudiziale (qui i documenti processuali) richiesto alla Corte di Giustizia europea dal Tribunale di Milano nell’ambito di un procedimento giudiziario avviato, con grande coraggio, da un gruppo di residenti tarantini nel 2021, che hanno chiesto in sede giudiziaria una migliore qualità della vita mediante un’azione inibitoria collettiva (art. 840 sexiesdecies cod. proc. civ.) davanti al Tribunale civile di Milano, chiedendo in via principale la chiusura o cessazione dell’attività della c.d. area a caldo degli impianti ex ILVA, in via subordinata la chiusura o cessazione dell’attività delle cokerie.   In via ancora subordinata, è stata chiesta la cessazione dell’attività produttiva fino al puntuale rispetto delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA), nonché, in ogni caso, la predisposizione di un piano industriale che preveda l’abbattimento del 50% delle emissioni di gas serra entro il 2026.

Nel settembre 2022 il Tribunale di Milano ha chiesto alla Corte di Giustizia europea una pronuncia pregiudiziale in relazione a una serie di ipotesi applicative della direttiva n. 2010/75/UE del Parlamento e del Consiglio del 24 novembre 2010 inerente le emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento), fra cui la valutazione del danno sanitario (VDS) e la possibilità di differimento (nel caso concreto più di 11 anni) della realizzazione di misure di riduzione dell’impatto inquinante pur in presenza di acclarati livelli di grave inquinamento.

La Regione Puglia è intervenuta a sostegno delle richieste del nucleo di residenti tarantini ed anche l’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) ha ritenuto fondamentale e doveroso intervenire anch’essa in giudizio in difesa del popolo inquinato.

Ora si attendono le decisioni della Corte di Giustizia europea e la conseguenziale pronuncia del Tribunale di Milano con la fondata speranza di poter aiutare i tarantini a ottenere quella migliore qualità della vita che attendono da fin troppo tempo.

Infatti, il disastro ambientale e sanitario determinato dal perdurante inquinamento degli impianti industriali siderurgici è ben noto in ambito internazionale, sotto gli occhi di tutti. Ne è stato l’artefice il complesso siderurgico ILVA s.p.a., oggi, dopo anni di crisi industriale e di amministrazione controllata, divenuto Acciaierie d’Italia s.p.a.

Maestranze e residenti di Taranto ne hanno subìto e ne subiscono le pesantissime conseguenze da decenni. Nei 13 anni esaminati (1998-2010), secondo le stime peritali, nei due quartieri tarantini di Tamburi e Borgo sono stati causati dall’inquinamento dell’ILVA ben 386 decessi totali, in gran parte per cause cardiache (30 all’anno), 237 casi di tumore maligno (18 all’anno), 247 eventi coronarici (19 all’anno) e 937 casi di malattie respiratorie (74 all’anno), in gran parte della popolazione infantile (638 casi totali, 49 all’anno). A Taranto, sempre secondo i periti, la mortalità, per patologie tumorali e del sistema cardiocircolatorio, per malattie ischemiche e dell’apparato respiratorio, è “più alta rispetto alla Puglia”, mentre per la mortalità infantile si registra “un eccesso, soprattutto con riferimento alle malattie respiratorie acute al di sotto dell’anno di età, oltre che a quelle tumorali”.

Pesanti le conseguenze per la salute dei lavoratori del siderurgico che nello stesso periodo hanno accusato malattie respiratorie e tumorali non da asbesto: “tale evidenza può essere collegata all’esposizione dei lavoratori Ilva a cancerogeni ambientali diversi dall’asbesto, in particolare Ipa (idrocarburi policiclici aromatici, n.d.r.) e benzene”.

Il 31 maggio 2021 la Corte d’Assise di Taranto si pronunciava con una sentenza che stabiliva nette responsabilità per il grave disastro ambientale e sanitario a carico di industriali, amministratori e funzionari pubblici, imprenditori. Tuttavia, i promessi interventi di abbattimento delle emissioni inquinanti e del risanamento ambientale tuttora stentano a veder la luce. A questo si aggiunge il fatto che allo stato manca un vero e proprio piano industriale per lo stabilimento. Si parla di una crescita nell’azionariato della parte pubblica, anche al fine della realizzazione di un impianto pulito (decarbonizzazione), nell’inerzia del socio privato (Arcelor Mittal). Proprio negli scorsi giorni l’ad di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, a proposito della decarbonizzazione dell’impianto, per la cui realizzazione lo Stato metterebbe un miliardo di euro ma non più da Pnrr ma da FSC nazionali, ha pronunciato le testuali parole: “Voi ci parlate di questa grande rivoluzione che è la decarbonizzazione ma noi siamo quelli che, poi, queste cose le dobbiamo fare. Allora, mi chiedo, chi paga la decarbonizzazione? E, ancora, quando bisogna fare qualcosa bisogna sempre chiedersi: ma, si può fare? La risposta scientifica è sempre sì ma noi dovremo chiederci anche: dopo, le aziende saranno ancora in piedi? Riusciranno a fare un prodotto, sicuramente pulitissimo, ma che poi qualcuno potrà acquistare?”. I sindacati chiedono all’esecutivo di nazionalizzare estromettendo il socio privato, bollato come «inaffidabile». Servono subito 320 milioni.

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