Il lavoratore moderno cerca altro: una vita meno dipendente da lavoro e carriera e più equilibrata.

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Il lavoratore moderno cerca altro: una vita meno dipendente da lavoro e carriera e più equilibrata.

ma.bu.

Non più Great Resignation, ma Quiet Quitting. Nel 2022 le aziende, dopo la fuga di cervelli, hanno iniziato a dover affrontare l’«abbandono silenzioso», la decisione dei dipendenti di svolgere le attività minime e strettamente necessarie della propria mansione, previste all’interno dell’orario lavorativo, per assicurarsi lo stipendio ed evitare il licenziamento. Secondo il report «State of the global workplace 2022» di Gallup, solo il 14% dei dipendenti in Europa è davvero coinvolto sul lavoro, situazione che spesso dipende dal rapporto con il proprio capo, che dovrebbe essere empatico e complice. Sempre secondo lo stesso sondaggio sta venendo meno la predisposizione a dedicarsi completamente , tempo, anima e corpo all’azienda, rimettendo al centro sé stessi, le proprie relazioni sociali come anche il proprio benessere psicofisico.

Un altro studio condotto da Bcg e The Network dal titolo “What Job Seekers Wish Employers Knew”, rileva – come riporta in un bell’articolo pubblicato ieri, 24 luglio, Corriere Economia, che “uno stipendio più alto non è una leva sufficiente a giustificare un cambio di lavoro, ma quello che cercano i lavoratori è coniugare al meglio l’impiego con la costruzione della sfera privata e fornire concrete possibilità di carriera nel lungo termine. Per chi sta cercando di cambiare lavoro, non ci sono dubbi: la priorità che emerge dalla ricerca è il bilanciamento tra vita professionale ed esigenze private”. Ben il 69% del campione globale e il 70% di quello europeo piazzano il work-life balance al primo posto nella classifica (prima dell’aspetto economico).

Nascono così fenomeni come la great resignation e il quiet quitting, che hanno però motivazioni diverse. Secondo Harvard Business Review, se il primo fenomeno nasce per la riscoperta del tempo libero, la nascita di nuove esigenze e consapevolezze post pandemia; il secondo dipende spesso dall’incapacità di molti manager di valorizzare il proprio capitale umano, di costruire relazioni solide e autentiche con i propri dipendenti, di metterli al centro di ogni decisione che li riguarda e di ascoltare i diversi bisogni. «La relazione che abbiamo con il lavoro è come una relazione tossica in amore – dice Alisia Galli, Psicologa Clinica e Leader Pillar Mentale di Fitprime – Siamo stanchi, anche avviliti: dalla retribuzione, dai mancati “successi”, dagli avanzamenti di carriera posticipati, dall’assenza di riconoscimenti, dal totale disinteresse nei confronti della nostra vita privata”. Siamo avviliti, ma non possiamo farne a meno: di lavorare, lavorare, lavorare. Perché il successo nella vita e l’accettabilità sociale sembrano essere determinati dalla nostra carriera: insomma, il lavoro oggi ha un ruolo decisamente ingombrante nelle nostre esistenze». La causa sta nella hustle culture, la dedizione totale (o quasi) al lavoro. Nata negli Stati Uniti, negli anni si è diffusa anche in Europa, con il risultato di aver portato sempre più persone a rischio di esaurimento nervoso proprio a causa del lavoro. «Dopo anni in cui ci siamo dimostrati sempre impegnati, credendo che questo ci rendesse interessanti agli occhi degli altri, oggi, soprattutto le nuove generazioni di lavoratori, a questo gioco non ci stanno più – continua Galli – E molti hanno deciso di cambiare il proprio atteggiamento. Così nasce il quiet quitting. Tradotto come “abbandono silenzioso”, si pensa che significhi che i lavoratori che abbracciano questo comportamento facciano il minimo indispensabile, non si impegnino per nulla e insomma siano dei lavativi. Questa interpretazione del quiet quitting però è impropria e in realtà il fenomeno racchiude ben altri valori». Fare quiet quitting in realtà vuole dire semplicemente lavorare nei tempi e nei modi indicati dal proprio contratto. «Si tratta di persone che decidono di adempiere alle loro mansioni lavorative, ma di non aderire alla cultura del “lavoro è vita” per guidare la loro carriera e distinguersi agli occhi dei superiori. Si attengono ai propri compiti e quando tornano a casa lasciano il lavoro alle spalle e si concentrano su attività di altri tipo: famiglia, amici, hobbies».

Questo trend è portato avanti soprattutto dai più giovani, quelli della cosiddetta Generazione Z (nati dal 1997 in poi), che interpretano il lavoro appunto in maniera diversa, non come qualcosa di totalizzante o quanto meno preponderante.

Ma oltre a giovani e giovanissimi, la pandemia ha fatto scoprire nuove esigenze a persone anche più “anziane”, che ambiscono dunque ad una vita più equilibrata, ove il tempo e le risorse anche emotive riservate al lavoro ed alla carriera siano giustamente ridimensionate a beneficio di tempo libero e vita privata. Si richiede dunque un maggiore ricorso a smart working e settimana corta a parità di salario che soprattutto in altri paesi vengono sperimentate con reciproca soddisfazione per lavoratori e datori di lavoro.

In Italia qualche azienda si sta muovendo nella direzione di ricercare una maggiore soddisfazione delle esigenze personali dei lavoratori, in termini soprattutto di work-life balance.I contratti collettivi di categoria ancora latitano ma si sta cercando di trovare una soluzione. Nel settore bancario Banca Intesa sta cercando di fare da apripista.

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